Boom di diagnosi di disturbi dell’apprendimento tra i bambini: c’è un’epidemia?

I nostri figli sono improvvisamente tutti malati? Oppure c’è un eccesso di diagnosi che sta medicalizzando situazioni in realtà assolutamente normali?


E’ questo l’acceso dibattito che si concentra sui DSA, ovvero sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Un dibattito che nasce dai numeri: dall’anno scolastico 2010/2011 i bambini con diagnosi di DSA sono passati dallo 0,7% al 2,1% della popolazione studentesca nel 2014/2015, con punte che toccano il 6,6% nella scuola secondaria di I grado nel Nord Ovest dell’Italia. Quello che è cambiato è che nel 2010 la legge 170 ha stabilito che bambini con questo tipo di difficoltà hanno diritto ad un percorso didattico personalizzato, a “strumenti compensativi” come la calcolatrice e a “misure dispensative” come l’astensione dal dettato. Basta che la famiglia presenti idonea certificazione di un medico specialista per fruire di questi percorsi di aiuto

E allora torniamo alla domanda iniziale: stiamo di fronte a un eccesso diagnostico che crea più problemi di quanti ne risolva oppure finalmente stiamo smettendo di etichettare come lenti o svogliati dei bambini che invece hanno un disturbo specifico, circoscritto e localizzato?

Chiariamo innanzi tutto di cosa stiamo parlando: dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia non sono generiche difficoltà dell’apprendimento ma disturbi specifici. Ci sono, per esempio, bambini che non collegano un numero alla parola che lo definisce e fuggono sistematicamente dai giochi in cui è richiesto l’uso dei numeri o bambini che invertono le sillabe e tagliano le parole e per cui il dettato rappresenta un incubo. Pur lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale e la creatività questi disturbi non solo incidono sul rendimento scolastico ma sono causa di grande stress per il bambino, associandosi molto spesso a problemi di autonomia, scarsa autostima, isolamento. Ancor più se l’insegnante non li riconosce e li punisce marcandoli come distrazione e svogliatezza: il bambino rischia di entrare in circoli viziosi di rabbia, frustrazione e isolamento in cui il fallimento e la demotivazione vanno ad aggravare lo specifico disturbo di apprendimento. Ed ecco che la diagnosi, in questi casi, può essere un ottimo punto di partenza perché il bambino riceva il sostegno adeguato. Ma attenzione: parliamo di punto di partenza e non di arrivo.

Se pensiamo che esiste un continuum che va da un polo di “normalità” verso un polo “patologico” dobbiamo chiederci se la valutazione che conduce a una diagnosi di Dsa e ha una certificazione abbia o meno un fondamento scientifico. Molti ricercatori ed esperti in materia, ad esempio, sottolineano come la somministrazione di una batteria di test non sia sufficiente: fattori individuali, eventi di vita, relazioni di attaccamento, sostegno degli adulti, contesto scolastico, devono essere indagati e non possono essere esclusi dal quadro diagnostico. Questa visione più ampia, multifattoriale e attenta alle numerose variabili in gioco, deve riguardare anche i percorsi di aiuto e cura. Come possono bastare gli strumenti compensativi e le misure dispensative? Sono un inizio importante, certo, ma sono troppo centrati sugli aspetti cognitivi del disturbo, sull’apprendimento e sul contesto scolastico, trascurando quelle difficoltà emotive e relazionali che inevitabilmente si associano ai DSA.

Oltre al problema dell’importanza e della centralità di una diagnosi seria e rigorosa, che non si riduca a una batteria di test depersonalizzanti e tra l’altro costosissimi per le famiglie (visto che l’accesso ai centri pubblici richiede spesso attese di parecchi mesi), c’è quello ancora più insidioso dell’utilizzo improprio di queste diagnosi. Perché per molti genitori e purtroppo anche per molti insegnanti la diagnosi è vista come una facile soluzione che solleva dalle responsabilità di mettere in discussione, magari, un metodo educativo e didattico troppo standardizzato e depersonalizzante oppure una relazione ambivalente con il genitore che magari, in preda all’ansia, scarica sul bambino la responsabilità dei suoi “insuccessi”. Mentre fioriscono centri per la diagnosi e il trattamento e farmaci che promettono guarigioni miracolose.

Il rischio da evitare, quindi, è quello di usare la malattia come scusa e di vedere la diagnosi come via di fuga dalla responsabilità. Non basta che un bambino vada male a scuola perché si tratti di Dsa: non si devono confondere delle difficoltà didattiche o di relazione con un disturbo, peraltro complesso e difficile da diagnosticare. Si rischia di etichettare un bambino o una bambina e di farli sentire diversi dai loro coetanei, magari incapaci rispetto ai compagni perché magari hanno modalità leggermente diverse nell’apprendimento o perché necessitano di un maggiore ascolto da parte di genitori e insegnanti.

Il supporto costante di genitori e insegnanti, le parole di incoraggiamento, la fiducia, la rassicurazione sono, come sempre, gli ingredienti più preziosi, capaci di riscrivere in positivo la storia di un bambino. Di quello che ha delle difficoltà facilmente superabili con un’attenta osservazione e cura da parte di genitori e insegnanti e di quello che ha una diagnosi di Dsa. Perché, in caso contrario, la certificazione rischia di trasformarsi in una etichetta che, anziché aiutare, si attacca al bambino e lo definisce. Intrappolandolo. Privandolo di possibilità e di speranza.

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