Le multinazionali che controllano la politica fanno di tutto per impedirci di essere autonomi

Questa mattina ho ascoltato alla radio una storia sul numero crescente di giovani che scelgono di diventare agricoltori. 

Sembravano un po’ come me – tra i 25 e i 35 anni, impegnati in pratiche biologiche, laureati, provenienti da famiglie del ceto medio e non dall’ambiente agricolo. Alcuni allevavano animali o curavano frutteti, altri, come me, coltivavano ortaggi. 

Le giornate degli agricoltori sembravano lunghe ma appaganti, intrise di sole e sporcizia. La storia era edificante, un antidoto alle continue notizie che parlano di quello che non funziona nell’agricoltura industriale, di additivi per il cibo e infestanti resistenti agli erbicidi.

Però il giornalista non ha chiesto ai giovani agricoltori: Ce la fate a campare? Potete permettervi un affitto, l’assistenza sanitaria? Potete pagarvi uno stipendio decente? Se avesse fatto a me queste domande, avrei risposto di no.




Nel caldo dell’estate i miei campi si stagliano sul paesaggio color bronzo come una trapunta verde allargata sulla sabbia. Quattro ettari di ortaggi biologici certificati tracciano i contorni di un piccolo fondovalle. Pomodori cremisi, fiori che sbocciano: zinnie, lavanda, margherite, cocomeri che crescono e macchiano il suolo come palloni sulla spiaggia.

Un uomo d’affari una volta mi ha consigliato di non ammettere che la mia attività avesse dei problemi “Nessuno vuole salire a bordo di una nave che affonda, sa cosa voglio dire?” aveva detto. Allora ero d’accordo, credevo che un’attività fallisse perché l’imprenditore non era abbastanza abile o di buonsenso, o non si impegnava a sufficienza. Se la mia azienda non produceva profitto sufficiente, era colpa mia.

Ogni volta che un cliente chiedeva come andavano le cose rispondevo: “Alla grande”. Pensavo alla storia della nave che affonda , e non ho mai detto “Beh, sbarchiamo il lunario, ma lavoriamo 12 ore al giorno, 6 giorni a settimana, e ci paghiamo solo quello che ci serve per coprire le spese alimentari e per la casa: 100 dollari a settimana”.


Non ho detto a nessuno che nel corso degli ultimi tre anni, da quando Ryan e io abbiamo avviato la nostra azienda, avevo consumato la maggior parte dei miei risparmi. Non ho ammesso che l’unica cosa che teneva a galla l’azienda erano i soldi guadagnati con altri lavori –Ryan lavora come carpentiere e io come fornaia.

Un pomeriggio, un collega contadino che era venuto a trovarmi mi ha chiesto come stavamo andando, e questa volta ho detto la verità. 

Ho tirato fuori un sacco preoccupazioni, gli ho detto come avrei fatto e che il futuro non sembrava molto più redditizio. Il contadino si limitava ad annuire, come se gli raccontassi quello che avevo mangiato a colazione la mattina e non gli stessi rivelando il segreto vergognoso della mia attività in perdita. Più parlavamo e più cominciavo a chiedermi cosa conoscevo degli altri agricoltori.





La maggior parte degli agricoltori con cui ho parlato, per tenere in piedi le loro aziende fanno un altro lavoro...






Un giorno durante la mia seconda stagione alla fattoria, mentre mi trovavo dietro il bancone a sciacquare le carote per eliminare il fango, è entrato un cliente e mi ha chiesto come stavano andando le cose, “finanziariamente, voglio dire”. Teneva un cespo di lattuga nell’incavo del braccio mentre dalla sua mano penzolava un mazzo di ravanelli rosa .




L’ho guardato e invece di rispondere come mio solito “alla grande”, ho detto, “Tiriamo avanti”. Lui ha annuito:” Beh, non fate un sacco di soldi, ma siete ricchi in un altro modo”. Ho aperto la bocca per rispondere, ma l’uomo si era già allontanato e guardava sognante i miei campi, nel sole del tardo pomeriggio. Mi sono girata verso il mucchio di carote, non sapendo comunque cosa dire.


Volevo chiedergli cosa intendesse esattamente con “altri modi”, ma sapevo che cosa voleva dire. Ho sempre sentito questo genere di cose: Dovete amare quello che fate, oppure, non c’è molto da guadagnare in agricoltura, ma che grande stile di vita, o ancora, beh, non siete qui per i soldi, giusto? I clienti ripetono questi luoghi comuni, nel tentativo di offrirmi qualche consolazione o incoraggiamento, ma osservando lo sguardo di quest’uomo verso i miei campi, non ho potuto fare a meno di chiedermi se fosse il cliente a dovere essere consolato.





L’idea che l’agricoltura sia un lavoro amabile giustifica forse il fatto che l’intero settore si regga sul lavoro sottopagato?






Ho dovuto chiedermi se questa idea serva solo a placare un disagio collettivo provocato da un fatto inquietante, un fatto che ci deve ci dovrebbe fare infuriare, che ci dovrebbe fare vergognare come società: il fatto che il tanto celebrato piccolo agricoltore non può nemmeno guadagnarsi da vivere.


Mi chiedo quanto tempo ci impiegherebbe il paesaggio per cancellare la mia azienda, se semplicemente me ne andassi via, se domani smettessi di coltivare, se nessuno zappasse tra le file di cipolle o falciasse il cardo, se nessuno raccogliesse il grano o i meloni o la zucca, nessuno seminasse le colture di copertura in autunno. Il cardo fiorirebbe, ogni fiore farebbe cadere una dozzina di semi gialli nel terreno come aghi in un puntaspilli, gli scoiattoli aspetterebbero che i meloni siano maturi e le zucche arancioni, per poi portarli via pezzo dopo pezzo. I bordi ordinati di ogni parcella si mischierebbero alle erbacce striscianti fino a quando i 10 acri apparirebbero di nuovo indivisi, solo un campo incolto.


Forse un altro giovane agricoltore rileverebbe il mio contratto di locazione, acquisterebbe le serre e l’attrezzatura per il trattore, le linee di irrigazione e le pile di contenitori per la raccolta. 

Forse funzionerebbe meglio o più a lungo, o forse anche lei se ne andrebbe dopo solo qualche anno.


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