Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
– Senza perifrasi edulcoranti, l’Unione Europea è un progetto ideato e realizzato dall’aristocrazia finanziaria a proprio beneficio esclusivo e, conseguentemente, in aperto antagonismo tanto con il vecchio ceto medio imprenditoriale borghese, quanto con le vecchie classi lavoratrici proletarie. I tagli lineari alla spesa pubblica per ottemperare ai vincoli dell’Unione e le manovre finanziarie e di apertura incondizionata alla competitività internazionale sono due tra le prove più lampanti dell’assetto del nuovo totalitarismo flessibile e finanziario dell’open society, che senza tregua condanna i totalitarismi passati per legittimare se stesso.
– Senza perifrasi edulcoranti, l’Unione Europea è un progetto ideato e realizzato dall’aristocrazia finanziaria a proprio beneficio esclusivo e, conseguentemente, in aperto antagonismo tanto con il vecchio ceto medio imprenditoriale borghese, quanto con le vecchie classi lavoratrici proletarie. I tagli lineari alla spesa pubblica per ottemperare ai vincoli dell’Unione e le manovre finanziarie e di apertura incondizionata alla competitività internazionale sono due tra le prove più lampanti dell’assetto del nuovo totalitarismo flessibile e finanziario dell’open society, che senza tregua condanna i totalitarismi passati per legittimare se stesso.
È emblematico a questo proposito – ed è anche la prova che accanto alla “banalità del male” esiste il “male della banalità” – un libro di rivendicato sostegno del progetto eurocratico dell’élite finanziaria intitolato Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi, nel quale al “risveglio” della memoria rispetto alle esperienze totalitarie del “secolo breve” non fa seguito, ed è anzi strutturalmente reso impossibile, un analogo risveglio dell’attenzione critica rispetto al nuovo totalitarismo liberal-libertario; totalitarismo finanziario in nome della cui teologia (la religione del libero mercato) i popoli e le masse precarizzate d’Europa sono chiamate a “sacrificarsi” (sacrum facere) responsabilmente e, all’occorrenza, anche a morire, secondo l’eloquente titolo (Euro sì. Morire per Maastricht, 1997) dell’opuscolo del futuro premier italiano Enrico Letta, “euroinomane” tra i più impenitenti.
In accordo con i trattati di Maastricht del 1992 (art. 104) e di Lisbona del 2007 (art. 123), gli Stati europei sono stati privati della possibilità di prendere a prestito dalle loro banche centrali. Di più, lo Stato ha abbandonato il diritto di battere moneta e ha trasferito questa facoltà sovrana al settore privato, di cui diventa debitore. Complici le prestazioni con cui si è mascherata la crisi del debito privato delle banche come crisi del debito pubblico degli Stati, la sovranità monetaria è stata neutralizzata e, con essa, si è rovesciato il rapporto tra Stato ed economia: è quest’ultima ora a essere sovrana, là dove lo Stato diventa il puro difensore del capitale e della sua logica, con annessa riconfigurazione della politica come mera continuazione dell’economia con altri mezzi.
L’altro terremoto di Lisbona
Fin dalla tableau économique con cui i fisiocratici tentavano di indirizzare le politiche economiche del re di Francia, la modernità è abitata dall’aspirazione a sostituire la politica con l’economia. Dalla stagione del laissez-faire, si viene imponendo la figura del governo frugale destinata a inverarsi nella deregulation e nel new public management dello Stato minimo con economia spoliticizzata post-1989, con tirannia del debito e dittatura permanente del mercato.
La Banca centrale non dipende dalla potenza politica statale, né può essere da essa limitata. La sua indipendenza assoluta è rispettata. Non vi è politica che possa controllarla, finendo invece la politica per essere essa stessa governata dall’economia. Dal canto suo, l’articolo 86 del Trattato di Lisbona – città sede del nuovo terremoto economico-sociale non meno catastrofico, nei suo effetti, rispetto a quello del 1755 – delinea un’economia di concorrenza totale, senza monopoli privati e pubblici, esibendo visibilmente il vero volto neoliberista dell’Unione Europea come – citando ancora Lenin – «accordo fra i capitalisti europei» o, aggiornando il discorso, come immenso e crescente potere della tecnocrazia oligarchica non eletta di Bruxelles. Non è accidentale che il summenzionato Trattato promuova senza perifrasi l’economia di mercato «altamente competitiva» (art. 2.3), ossia il dogma del competitivismo allo stato chimicamente puro.
Su questa stessa linea, il 2 febbraio 2012 è entrato in vigore il Mes (Meccanismo europeo di stabilità), che ha introdotto la norma della «condizionalità». In conformità con quest’ultima, si accorda assistenza finanziaria unicamente agli Stati dell’Unione che, in cambio, si impegnano a mettere in opera un programma di riforme e – così nel testo, con un lessico marcatamente orwelliano – di «aggiustamento macroeconomico» coerente con le tendenze neoliberiste (privatizzazione dei servizi pubblici, riduzione dei salari, taglio della spesa, soppressione di ogni limitazione alla circolazione delle merci). In altri termini, con il Mes, gli Stati aiutati vengono per ciò stesso privati dell’autonomia politica e si vedono coartati, pena il precipitare nella miseria, ad accettare riforme dettate dall’esterno, sempre a beneficio dell’oligarchia finanziaria e a nocumento della massa precarizzata post-borghese e post-proletaria.
Foto Ansa
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