Pandemia, app e tecnologia: Lo spettro della sorveglianza digitale

Mentre gli Stati si preparano a misure di contrasto prolungate per il nuovo Coronavirus, i governi si interrogano sull’utilità e la necessità dell’uso delle nuove tecnologie.


Le misure di sanità pubblica sono sempre dipese da forme di sorveglianza. Lo stesso contact tracking, anche se effettuato personalmente dagli operatori sanitari, alla fine non è altro che una forma di sorveglianza a ritroso, un’indagine approfondita sui comportamenti, le abitudini e i contatti del singolo individuo. Ma oggi si pone il problema di far fare un salto tecnologico a queste forme di invasione nella vita privata dei cittadini.
La popolazione mondiale sta affrontando misure restrittive e limitazioni ai diritti fondamentali senza precedenti, mai viste nei paesi democratici. I confini legali vengono ogni giorno messi in discussione come dei retaggi del passato che impediscono un’efficace lotta al virus. La paura dell’ignoto innesca false notizie, teorie della cospirazione e diffonde panico. E i cittadini risultano, quindi, sempre più aperti a ogni possibile cambiamento.

Paradossalmente, però, le due superpotenze tecnologiche, USA e Cina, non si sono distinte particolarmente nel contrasto alla pandemia, nonostante il più vasto apparato di sorveglianza elettronico, sistemi di intelligenza artificiale tra i migliori al mondo e leggi che consentono un’intrusività inimmaginabile in un paese europeo.

Nell’ottica del contrasto al virus le istituzioni di molti Stati si stanno concentrando su una soluzione tecnologica di contact tracing. Con piccole differenze tra loro, questi sistemi garantiscono la minimizzazione dei dati, cioè vengono utilizzati solo identificatori anonimi (se il telefono venisse rubato si otterrebbero solo un elenco di codici inutili per qualsiasi identificazione) e le autorità sanitarie non ricevono nessun dato se non in casi di necessità (quando un utente le contatta o viene trovato infetto). Inoltre prevengono abusi dei dati, perché tutti ricevono solo una quantità minima di informazioni strettamente connesse alle esigenze (ad esempio, i cittadini non ricevono nessun dato identificativo, ma solo un warning). I dati vengono conservati solo per il tempo necessario e poi cancellati (tempi tra 14 e 28 giorni). Infine le app possono essere rimosse dopo l’emergenza.


Ovviamente la app da sola non serve a granché se poi non c’è la struttura sanitaria pronta a effettuare i test diagnostici alle persone tracciate o gli ospedali per accoglierli, altrimenti si crea solo panico nella popolazione. Soprattutto, per funzionare occorre una popolazione collaborativa (la stima è che dovrebbe usare l’app circa il 60% della popolazione), dove è da intendersi che la collaborazione si ottiene con la fiducia e la responsabilizzazione, mentre le imposizioni (app obbligatoria) spesso ottengono l’effetto opposto (persone che “dimenticano” lo smartphone a casa).
Infatti, l’attuale corsa verso un’app di tracciamento della popolazione apre al rischio concreto di inquadrare il problema come fosse esclusivamente tecnico. È, invece, un problema complesso che presenta numerosi aspetti da tenere in considerazione:
1) l’aspetto sanitario (pianificazione di una sanità che funziona ed è preparata alle epidemie prima che queste avvengano, come nei paesi dell’est asiatico), che è strettamente legato a una politica di solidarietà globale, coordinamento sociale e condivisione delle informazioni e delle risorse tra gli Stati, piuttosto che una politica di isolamento nazionalista.
2) L’aspetto sociale, di gestione dei rapporti con i cittadini (paternalismo e coercizione o informazione e responsabilità?); non siamo in guerra e soprattutto non è una guerra contro alcuni dei cittadini, siamo in una fase di cura dove dovremmo assistere gli altri, i più deboli specialmente. Una popolazione informata e responsabile è in genere più efficiente di una disinformata e soggetta solo a coercizioni.
3) L’aspetto tecnologico: telemedicina (per interagire e comunicare con i pazienti contagiati), test diagnostici, intelligenza artificiale (per creare modelli di previsione della diffusione del contagio e per allocare le risorse sanitarie dove realmente servono senza sprechi), robot (per aiutare i medici, per disinfettare luoghi in sicurezza), eventualmente anche contact tracing, senza dimenticare, però, che proprio nei paesi dove la soluzione tecnologica per il contact tracing è già presente, non è stata sufficiente, non è stata risolutiva.
Le app di contact tracing digitale riscriveranno il modo in cui vivremo nel futuro, perché una volta implementate difficilmente la tecnologia si potrà cancellare, e un modo per sfruttarla si troverà sempre, casomai con la prossima emergenza (attentato terroristico?). Più di cento Ong e associazioni per i diritti civili hanno invitato gli stati a non usare la pandemia come copertura per inaugurare una nuova era di sorveglianza digitale. La Commissione europea si è vista costretta ad annunciare le linee guida per l’uso della tecnologia e dei dati nel contrasto alla pandemia, e il Garante europeo per la protezione dei dati ha chiesto una linea comune europea per impedire una proliferazione di app nazionali e quindi raccolte di dati improvvisate pericolose.
L’attuale ecosistema digitale è perfettamente compatibile con un controllo esteso della popolazione, perché è stato plasmato dalle stesse aziende che sfruttano tali forme di controllo a fini di profitto (progettato per fare di noi i bersagli della pubblicità), in stretto accordo coi governi che desiderano ardentemente sedersi allo stesso tavolo per avere la loro fetta di Big Data. Non c’è molto spazio per la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.
Ecco perché l’insistenza nell’app salvifica appare sempre più un’esigenza politica, il dover mostrare che la politica sta facendo qualcosa, piuttosto che brancolare nel buio e accusare il runner di turno della diffusione dell’epidemia (i dati aggregati diffusi da Google e Apple dimostrano inequivocabilmente che la causa va cercata altrove). Ma è un modo per non affrontare realmente il problema, costringendo i cittadini ad adeguarsi a una realtà nella quale essere infetti sarà considerata la condizione normale: non c’è soluzione e tu, cittadino, devi trovare un modo per conviverci. Come accade con la normativa in materia di terrorismo (in preparazione), plasmata per una realtà nella quale siamo tutti terroristi fino a prova contraria, e la normativa in materia di copyright, per la quale siamo tutti violatori del copyright altrui fino a prova contraria, così la società del futuro potrebbe sempre più assomigliare a una enorme quarantena dove ogni nostro singolo passo sarà spiato, controllato e autorizzato da un’app, un algoritmo onnipresente al quale non ci sarà possibilità di ricorso.
Di Bruno Saetta
Avvocato e blogger, si interessa di diritto applicato ad internet e alle nuove tecnologie di comunicazione. valigiablu.it

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